La Corte dei conti, Sezione di controllo per la Lombardia, con parere n. 87/2019 e n. 89/2019, ha fornito un quadro preciso e cristallizzato della nozione legislativa della produzione di attività rivolta ai soci, che non può essere inferiore all’80%, e di quella eventuale «di mercato», che, in ogni caso, deve essere inferiore al 20%.
Le amministrazioni interessate hanno chiesto se fosse corretta una lettura coordinata dei commi 3 e 3-bis dell’articolo 16 con il comma 4 dell’articolo 4 del testo unico sulle partecipate nel senso di ritenere ampliate le possibilità di azione delle società in house potendo le stesse produrre un fatturato anche superiore al 20% attraverso prestazioni non rivolte all’ente socio, purché l’attività svolta rientrasse, comunque, nei compiti affidati dall’amministrazione.
Le norme di riferimento
La Corte ha ribadito come la normativa comunitaria, mediante la direttiva appalti del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 febbraio 2014 (Direttiva 2014/24/Ue), recepiti a livello nazionale dal Codice degli appalti (Dlgs 50/2016) abbia fissato un vincolo quantitativo (l’80% delle attività svolte a favore dell’amministrazione controllante) come uno dei requisiti necessari per l’esclusione dalla applicazione della direttiva stessa e, dunque, per la possibilità di effettuare affidamenti diretti da parte della amministrazione aggiudicatrice nei confronti di una persona giuridica di diritto pubblico o privato. Al comma 5 dell’articolo 12 la stessa direttiva specifica poi i meccanismi operativi attraverso i quali impostare i calcoli relativi alla valutazione dell’80% dell’attività, individuando il fatturato come uno dei parametri fondamentali.
Secondo la Corte, il principio dell’attività prevalente, per la prima volta, viene in tal modo introdotto a livello comunitario per via normativa e non più solo giurisprudenziale e assume, attraverso la direttiva stessa, il valore di vincolo, definito quantitativamente in modo preciso e puntuale.
Il vincolo dell’80% del fatturato prodotto a favore del socio controllante è, dunque, in primo luogo da ricercare nella volontà del legislatore comunitario e nazionale riguardo la regolarità dei sistemi di affidamento di appalti e concessioni, onde evitare elusioni ai meccanismi competitivi e circoscrivere le esclusioni di applicazione della direttiva, recepita dal codice dei contratti pubblici, a fattispecie specifiche, motivate e ben definite.
In definitiva, il testo unico stabilisce che le società in house possono ricevere affidamenti diretti da parte delle amministrazioni socie qualora si verifichino tutte le condizioni previste dal codice dei contratti pubblici in materia di affidamento: controllo analogo, composizione societaria e prevalenza dell’attività prodotta – limite minimo dell’80% – verso i soci.
Il Tusp introduce, invece, modifiche da un lato, al comma 2, inserendo la possibilità di derogare al codice civile, tramite previsioni statutarie, al fine di creare le condizioni operative per le società controllate di soddisfare i vincoli stabiliti, e dall’altro, al comma 3-bis, introducendo un ulteriore criterio restrittivo rispetto al codice degli appalti: l’eventuale 20% di attività non destinata all’ente socio («la produzione ulteriore rispetto al limite di fatturato di cui al comma 3») può essere realizzata a favore di terzi «solo a condizione che la stessa permetta di conseguire economie di scala o altri recuperi di efficienza sul complesso dell’attività principale della società».
Il parere
Il Collegio, condividendo la giurisprudenza espressa dal giudice amministrativo sul comma 3-bis dell’articolo 16 del Dlgs 175/2016, non ritiene che la sua lettura coordinata con il comma 4 dell’articolo 4 autorizzi a derogare al limite quantitativo stabilito dal comma 3, dell’articolo 16, ma consente soltanto di svolgere attività ulteriori, con «finalità diverse», rispetto a quelle indicate nel comma 2 del medesimo articolo 4, nell’osservanza – comunque – delle condizioni e dei limiti dallo stesso comma 3-bis indicati. Non è dunque possibile derogare alla percentuale dell’80% prevista dal comma 3.
Peraltro, a conferma di questo impianto, l’articolo 16, ai commi 4, 5 e 6 richiama nuovamente il limite quantitativo inderogabile dell’80% del fatturato a favore dei soci e stabilisce che il mancato rispetto del limite costituisce grave irregolarità «ai sensi dell’articolo 2409 del codice civile e dell’articolo 15 del presente decreto», prevedendo espressamente le procedure per sanare le irregolarità e le conseguenze nel caso di non soluzione. La società può sanare l’irregolarità se, entro tre mesi dalla data in cui la stessa si è manifestata, rinunci a una parte dei rapporti con soggetti terzi, sciogliendo i relativi rapporti contrattuali, ovvero rinunci agli affidamenti diretti da parte dell’ente o degli enti pubblici soci, sciogliendo i relativi rapporti.
Alla luce della chiarezza dei pareri della Corte, agli enti pubblici soci di società in house, si impone – tra l’altro – l’obbligo di verificare il rispetto del vincolo quantitativo dell’80% minimo inderogabile proprio in questi mesi, in occasione dell’approvazione dei bilanci delle proprie società, riservandosi, comunque, di dover procedere a tale verifica anche durante l’esercizio in corso, date le gravi conseguenze che ne possono derivare in termini di violazione del principio delle tutela e della promozione della concorrenza e per gli adempimenti – eventualmente – da adottare – in tempi stretti e ben definiti.
IlSole24Ore
del 3 Aprile 2019
Ciro D’Aries
Allegati:
Il parere della Corte dei conti Lombardia n. 87/2019
Il parere della Corte dei conti Lombardia n. 89/2019